Robertlandy Simon, icona della pallavolo mondiale, ha condiviso in un’intervista esclusiva con Sara Kalisz per sport.tvp.pl la sua straordinaria storia, segnata da difficoltà, sacrifici e una passione incrollabile.
Nato a Cuba da genitori ex cestisti della nazionale, Simon sognava di emulare le stelle dei Boston Celtics, come Rondo e Kevin Garnett. Tuttavia, il destino lo ha portato alla pallavolo, un percorso non privo di ostacoli, che lo ha trasformato in una leggenda.
Simon ha iniziato a giocare a pallavolo a 12 anni, ma solo a 15-16 anni ha iniziato ad appassionarsi, spinto più dal cameratismo della squadra che dal gioco stesso. “La pallavolo è complicata, diversa da sport come calcio o basket, dove basta toccare la palla. C’è una rete, devi imparare tutto da zero”, racconta. Le condizioni a Cuba erano proibitive: allenamenti su terreni fangosi, senza palle né reti, spesso su cemento o su una particolare “argilla rossa” che assorbiva l’acqua.
“Non avevamo nulla, ma trovavamo modi per allenarci, anche solo con esercizi fisici”, spiega. Questo ha reso i cubani noti per la loro potenza fisica, più che per la tecnica, a differenza degli europei.La vita a Cuba era dura. Simon ricorda i primi viaggi con la nazionale, come quello in Russia a 16 anni, dove scoprì il freddo e la neve, con soli 10 dollari al mese di stipendio. La povertà era diffusa: “Anche come figlio di atleti, non avevo niente. I compagni di squadra arrivavano con solo una maglietta”. La censura governativa impediva di vedere le partite all’estero, e l’accesso a internet era limitato. Simon chiedeva copie dei match su DVD per mostrarli alla famiglia, in un contesto dove anche riviste straniere erano una rarità. Nel 2010, dopo i Mondiali, Simon decise di lasciare la nazionale cubana, deluso dalle promesse non mantenute di migliori condizioni.
“Ci allenavamo a 35 gradi senza aria condizionata, senza acqua fredda, con cibo scarso”, ricorda. Per lasciare Cuba, dovette sposare una ragazza italiana, un matrimonio temporaneo che gli aprì le porte per giocare a Piacenza. “Il club mi ha aiutato con tutto, anche pagandomi 300 dollari al mese mentre ero ancora a Cuba. Era una somma enorme per me”, dice.
Simon ha affrontato anche discriminazioni: i prezzi per lui erano raddoppiati perché considerato “ricco” per la sua notorietà. “Un sacco di cemento costava 80 dollari per gli altri, 250 per me. Chiedevo agli amici di comprarmelo”, racconta.
La perdita della madre, nove anni fa, e la responsabilità di prendersi cura del fratello disabile lo hanno segnato profondamente, rendendo ogni decisione ancora più complessa.Nonostante il divieto di entrare nelle palestre cubane dopo aver lasciato la nazionale, Simon è tornato a rappresentare Cuba, spinto dall’amore dei tifosi.
“La pallavolo è tutto per i cubani. Anche se non possono guardarci, ci seguono su Facebook. Ricevo messaggi da persone che non hanno nemmeno da mangiare, ma trovano gioia nei nostri successi”, afferma con emozione. Tuttavia, le difficoltà logistiche persistono: viaggi estenuanti, con scali multipli e notti passate sui pavimenti degli aeroporti, rendono la vita della nazionale cubana unica rispetto alle squadre europee. Simon sottolinea la disparità di condizioni: “In Europa i club ci danno casa, cibo, vestiti. In nazionale, invece, dobbiamo arrangiarci”.
Eppure, continua a giocare per il legame con il suo popolo: “Quando cammino per strada, i cubani mi fermano. Quello che facciamo è importante per loro”. La sua storia è un inno alla resilienza, un esempio di come talento e determinazione possano superare le avversità. Simon non è solo un atleta, ma un simbolo di speranza per Cuba.