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Pallavolo Storie e Personaggi – Julio Velasco: “Non sono un guru, solo un allenatore pragmatico”

Ha più titoli che anni. O forse no. Olimpiadi, Mondiali, Europei, scudetti, Coppe. Julio Velasco ha vinto tanto ed è stato raccontato in ogni modo. Con Ivan Zazzeroni il Direttore del Corriere dello Sport, in un’intervista sotto la pioggia mentre guida da Ravenna a Bologna, si sofferma sulla persona e sul personaggio che gli hanno cucito addosso. “Sono soltanto un allenatore di pallavolo, non uno di nicchia, non uno che parla ai grandi sistemi. Nello sport le ideologie non vincono. Il mio è un mestiere pragmatico”.

La chiamata arriva a pochi chilometri da casa. “Julio, vorrei chiederti qualcosa sul maschile…”. Ride, con quella risata alla Velasco. Il rumore della pioggia ingoia le parole. “Facciamo così: ti cerco più tardi. Dopo le sette, devo andare con mia figlia…”.
Riprendo: “Tu sei quello che dice ‘i giovani vogliono tutto e subito. Sta a noi adulti dire no'”. “Alle mie tre figlie ne ho detti tanti. Mi presentano ancora la fattura… Questa però è mia”.
“Cosa intendi?”. “Che tante frasi attribuite a me non le ho mai pronunciate. All’università lessi ‘Sei personaggi in cerca d’autore’ di Pirandello: personaggi che prendono vita. Mi piaceva anche ‘Oltre il giardino’, con Peter Sellers. Mi sento come Chance Giardiniere. C’è chi pensa che io abbia scritto ‘Il codice Velasco’, dove gioco a pallone scalzo a La Plata, polvere sui piedi. Ma nemmeno Maradona lo faceva. La mia famiglia era media borghesia, mamma professoressa d’inglese. Di quel codice non so nulla”.

“Questa l’hai detta: ‘Quando il personaggio prevale sulla persona è l’inizio del declino'”. “Non esattamente. Il declino arriva se la persona diventa il personaggio, se ci crede. Io sono un allenatore di pallavolo, punto. Quando mi dipingono guru, mi rompo i coglioni di quel me stesso”.
Velasco convince: una vita normale offre più libertà di una da successo. Su Contrasti leggo: “Velasco trasformato in icona fashion, ‘la camminata di Sorrentino a Cannes’. Non si commenta lo sport, si divinizzano personaggi. Upgrade dello ‘slurp'”.
“D’accordo. Focalizzarsi sul personaggio perde il senso dello sport. Giudica la squadra, l’atteggiamento. Le ragazze non hanno mai mollato”.La popolarità viene dalle vittorie. “Vorrei sparire un po’. Mi chiamano in tv, ma evito sovraesposizione, come nel ’90”.

“Cosa successe?”. “Feci solo Chiambretti e Costanzo, rinunciai a Sanremo. Allora era facile: solo giornali. Oggi i social ti mettono ovunque”. I sabbatici coincisero con il calcio. “Lasciai la Lazio: capii che finiva male. Idem all’Inter. Cragnotti mi scelse con Zoff presidente, figure pulite. Con lui lavorai, ma rinunciai a quattro anni di contratto. All’Inter confusione dopo Lippi. Moratti mi pagò per non lavorare”.
“C’è di peggio”. “D’accordo”. Dal ’79 alleni ancora. “Quanto ti sei aggiornato?”. “Sempre. Studio, osservo, copio. Sono pragmatico, non ideologico. Insistere su un’idea che non funziona è errore. Adatta a gruppi e momenti. Parlo semplice alla squadra. Prima del Mondiale dissi alle ragazze: con Cragnotti si lavorava, all’Inter no”.
“L’oro di Parigi eccezione?”. “Basta un attimo per capovolgere tutto. Nello sport l’avversario ti dice se sei buono. Perché una squadra piace e un’altra no? Mistero. Guarda Vasco Rossi: non il migliore tecnicamente, ma trasmette forte e comprensibile”.
“Hai detto: ‘Ho assistito al mio funerale da vivo'”. “Mai detta ‘sta cazzata. Non parlo a grandi sistemi. Mi vedono presuntuoso. Ripeto: amo concetti chiari. Attento alle parole in squadra”.

“È il codice Velasco”. “Ripetilo e butto giù”.